Donna in azzurro che sta per leggere una lettera

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Sono qui, nella mia stanza piena di polvere e pensieri, e tengo in mano una lettera. O, per meglio dire, la lettera che per tempo immemore ho atteso. La carta è malconcia, la scrittura tremolante: chissà con quanta fretta e trascuratezza la penna ha macchiato la pagina strappata dal fondo di un libro trovato nella libreria, aperto casualmente. 23 maggio e non trovo il coraggio di leggere oltre. Una luce calda e avvolgente mi rassicura, scaldandomi il volto che sento essersi impallidito nell’istante in cui ho visto la cameriera entrare con la busta tra le mani. Le perle che compongono la collana, ormai gettata sul tavolo, non brillano più: avevano il compito di prestarmi un po’ di lucentezza per l’evento di stasera; ora altro non sono che preda dell’ignoto, come le parole impresse sul pezzo di carta, miseramente trattenuto dalla mia precaria stretta. La tunica azzurra non è abbastanza ampia per nascondere la vergogna e il desiderio irrefrenabile di leggere; al di sotto di essa, una presenza mi invita a distogliere lo sguardo, bensì percepisco la sua curiosità.

Vorrei poter scolorare la tunica per renderla di un bianco sgargiante, agghindandola di merletti e pizzi. Vorrei potermi aggrappare a mani forti e non a parole vaneggiate. Vorrei sentire l’odore tra le mani di un bouquet di fiori di campo piuttosto che di umidità di una soffitta. Vorrei che tutta la stanza fosse ricolma di luce e non ci fosse solamente uno spiraglio a farmi compagnia. Vorrei che lo strato di polvere sulla sedia alla mia destra non si fosse mai formato. Vorrei che il puntino segnato sulla cartina al mio fianco non fosse piantato così lontano. Vorrei avere il coraggio di strappare la lettera, slegare i capelli e riposare tranquilla, poggiando i piedi sulla sedia piena di polvere, accarezzando docilmente la superficie liscia e arrotondata del mio grembo.

(Jan Vermeer, Donna in azzurro che legge una lettera, 1663 ca, olio su tela, Amsterdam,  Rijksmuseum)

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