Un vecchio signore, distintamente vestito, volutamente distinto dagli altri vecchi che lo contornavano, se ne stava seduto su una comoda poltrona bordeaux, su cui vi erano stampati decine di fiori rinascimentali. Stonavano un po’ con l’ambiente in cui erano stati annaffiati: non era una corte ducale, una reggia di artisti con divertenti pantaloncini gonfiati sui fianchi. In quel luogo freddo e grigiastro, con “duchessa” si intendevano le patate servite su piatti di plastica bianca per il pranzo della prima domenica di ogni mese e i pantaloncini, che viaggiavano ripiegati sui carrelli, avevano due fasce adesive laterali e dovevano essere cambiati continuamente.
Il vecchio passava la maggior parte della sua monotona ed insensata giornata su quella poltrona anticata, fatta eccezione del mercoledì mattina. Sole brillante, pioggerellina fitta, afa anche all’ombra, neve fin sopra le ginocchia: qualunque fossero le condizioni metereologiche, tutti i mercoledì mattina d’estate e d’inverno il vecchio indossava il suo cappotto color cachi e ficcava il naso fuori dall’edificio in cui era relegato ormai da incommensurabili anni. Per tre ore precise, senza nemmeno indossare l’orologio al polso, faceva la sua passeggiata: prendeva Via della vecchia sul ponte, percorreva Corso delle ore perdute, riposava sulla panchina di destra, sotto un salice ripiegato su se stesso, in Piazza della mezza età e tornava indietro. Faceva sempre ritorno, o almeno queste erano le sentenze che uscivano dalle bocche che lo vedevano passare nel corridoio lungo, pavimentato di marmo e su cui si affacciava una schiera di porte sbreccate. Passavano i mercoledì mattina fuori, i pomeriggi seduti, le domeniche con le patate arricciolate, ma il vecchio stava sempre più in silenzio. Il mondo fatto di suoni, parole, urla, pianti lo circondava, ma egli non era affatto attratto dal tornare a farne parte. Non si trattava di mutismo selettivo, di demenza senile o meditazione speculativa; solamente silenzio. La parola ormai era diventata un accessorio occasionale, come la tunichina del battesimo. Indossava ogni giorno una camicia diversa, ma il suo corpo, nonostante si deteriorasse pian piano, non entrava più nelle parole. Erano appese alle grucce dell’armadio della camera della sua vecchia abitazione, tra tarme, scatole di foto in bianco e nero e vestaglie a fiorellini di mille colori, profumate di acqua di rose. Nonostante le dicerie comuni indicassero che le parole fossero in grado di far rinascere chiunque si trovasse in difficoltà, egli negava mani e orecchie tese, pronte a fornirgli aiuto, e rimaneva in silenzio.
Un mercoledì mattina, in cui il tempo era particolarmente favorevole per la camminata, il vecchio uscì, percorrendo il suo usuale itinerario, come fosse a capo di una visita guidata di un museo. Si guardava attorno alla ricerca di un qualcosa che fosse cambiato: le tendine diverse dell’appartamento al terzo piano del palazzo giallo all’angolo, un anello della catena di un’altalena del parco aggiustato, un semaforo spostato in avanti. Niente era cambiato, ma, inspiegabilmente, quando giunse di fronte alla panchina della piazza, non si sedette. Una leggera brezza spirava verso una direzione ignota tanto che le lunghe ciglia del salice puntavano le sue lacrime verso ovest. Proseguì seguendo le indicazioni del vento, fino a quando quest’ultimo non smise di ululare. Il vecchio si trovò in mezzo ad una spianata di polvere e rovine antiche, al cui centro era seduta su una poltrona bordeaux una donna con i capelli raccolti, il rossetto color ciliegia fiammante e una vestaglia con fiori gialli. Sorrideva, invitando con la mano, il vecchio ad avanzare. Giunto al suo cospetto, non aveva quasi il coraggio di guardarla negli occhi. Gli pareva somigliasse alla sua Paola, che aveva perduto quando le tarme avevano cominciato a mangiare i vestiti dell’armadio di camera e tutto ciò che vi era contenuto dentro. La donna spalancò la bocca e cominciò così a parlare:
PAROLA: Sono la Parola e vivo in questo silenzioso posto ormai da molto. E’ da un po’ di tempo che non ci incontriamo e mi chiedevo dove fossi finito.
Pian piano il vecchio distaccò le due parti della bocca e le dette fiato, lasciandolo passare da una stretta fessura:
VECCHIO: La vecchiaia si è presa gioco di me e io non sono più avvezzo a giocare. Ti ho persa e mi sono perso. Il silenzio mi sembra l’unico alleato per combattere la monotonia delle mie giornate. Sono lontani i tempi in cui non facevo altro che parlare, dietro ad un lungo bancone da bar di marmo bianco. Eri sempre accanto a me, la mia fedele compagna.
PAROLA: Forse non te ne sei accorto, ma sono sempre rimasta con te. Ti osservo e rimembro i mercoledì mattina, quando il bar era chiuso, e ce ne andavamo a spasso per la città. Ma dimmi un po’: ti sei stancato di quel filo trasparente che è cucito sulle tue labbra?
VECCHIO: Nel silenzio mi sento al sicuro. Non mi piace espormi con gli altri vecchi: i discorsi vanno pian piano deteriorando, dal risultato della partita di calcio della sera precedente al pettegolezzo raccontato da una presentatrice eccessivamente emotiva alla tirannia delle malattie all’incessante e vandalico fuggire del tempo.
PAROLA: E’ così che funziona il mondo, perennemente in preda degli attimi che fuggono. Pensando troppo a come questi ultimi corrano, si rischia di rimanere indietro e di non riuscire a stare al passo. Io posso aiutarti, fidati di me come giurasti di fare per tutta la vita, in quel dì di primavera.
Ti posso svelare cinque modi per non rimanere in silenzio e spendere ciò che ti rimane del tuo tempo in modo da non avere la bocca sigillata? La prima cosa da fare è mettere in movimento la testa ed i suoi pensieri. Ogni odore, ogni colore provoca l’evocazione di un ricordo, di un’emozione a cui ci si deve sforzare di dare un nome. Pensando e classificando le idee, etichettando i pensieri, si favorisce l’uso della parola in quanto il corpo sente propriamente il bisogno di esprimersi. Le opinioni sono mie fedeli alleate, mi aiutano a capire da che tipo di bocca uscirò. Naturalmente, dopo l’elaborazione di un pensiero, arriva l’espressione di esso. Sembrerà banale affermare che parlare è uno dei migliori modi per non rimanere in silenzio ma è così. Servo proprio per far capire all’ascoltatore che tipo di interlocutore si trova davanti. Mi esprimo secondo diverse maniere: parola orale, sussurrata ad un orecchio per consolare; parola scritta, stampata su fogli di giornale destinata a essere riciclata; parola gestuale, improvvisata da turisti in terra ignota. Comunicare e condividere sono altri due imperativi che permettono, approfittando delle parole, di approfondire la conoscenza. I legami che si instaurano in un dialogo sono più veritieri di quelli che nascono con un rapporto fisico, anche se forse meno soddisfacenti. Rappresento in ogni uomo una parte importante della sua essenza. Se mi esprimo a scatti è perché avverto uno stato di disagio, se spesso ricorro ai due punti sono intenta a spiegare meglio e a essere convincente. Molto spesso capita che venga interpellata in situazioni sgradevoli, dove sarebbe meglio lasciar correre ma purtroppo i logorroici provano un amore spassionato nei miei confronti. Con altri casi e persone, invece, la loquacità è vista come un nemico da cui difendersi, ricorrendo all’uso di ago e filo con cui cucirsi la bocca. Ognuno fa di me quello che vuole, ma, come in tutte le cose, sarebbe necessario trovare un punto d’incontro, il giusto equilibrio tra bombardamenti di parole e lunghi silenzi imbarazzanti. L’ultima mossa che ti svelo per non restare ammutolito, basito o svogliato che tu sia, è quella di ascoltare. Non limitarti a guardare fuori dalla finestra, seduto su una poltrona. Il mondo è fatto di suoni, parole, canzoni, poesie. Attiva l’orecchio e affidati al rumore: recepirai ciò che davvero serve per non rimanere in silenzio.
Si sentì come attirato da un vortice e finì per trovarsi seduto sulla solita panchina. Un frastuono di rumori e suoni gli affollarono le orecchie tanto che non potette fare a meno di incamminarsi verso la casa di cura. Ripensava a quell’incontro così strampalato, inusuale, utopico. D’altro canto però aveva riconosciuto l’odore dell’acqua di rose che lo rassicurava. Si soffermò davanti ad una vetrina di un bar, da dove proveniva un aroma inconfondibile di caffè e una musichetta spensierata. Entrò con fare spavaldo ma mani tremolanti, verso il bancone e due sgabelli girevoli. Si accomodò sullo sgabello di sinistra, si tolse il cappotto e lo posò su quello di destra. Ed esclamò con voce roca: “Buongiorno, un caffè per favore.”
non so che dire…mi piace molto…dovrebbe sembrarmi un punto di vista positivo e invece mi da tristezza…non so
Un misto tra tristezza e malinconia…
eppure alla fine parla…non so
Quasi un romanzo, e poetico per giunta.
ml
Grazie!!!!